La pensione – Storia di Gianin e la Dilina

Tratto da Storie vere di vita contadina sulle belle colline romagnole di Cesena (San Tommaso, Saiano, Carpineta, Sorrivoli, Casale) inizio anni 60.

di Fiorenzo Barzanti

Il mio motto è: chi non è ironico ed autoironico ha una finestra in meno aperta sul mondo.

Fiorenzo Barzanti

Conservo nitidi ricordi di quando ero un bambino e frequentavo le elementari, fine anni 50 inizio anni 60: la vita contadina, la mancanza di acqua potabile, la raccolta dei frutti, le feste parrocchiali, le cresime, le comunioni, i matrimoni, la miseria, la gioia, la gelosia, le corna, le veglie, la scuola, l’aiuto reciproco, la politica, l’amore, l’allegria, i divertimenti, l’ironia, gli aneddoti, le usanze, il mercato. Ho iniziato a scrivere questi ricordi usando molto l’ironia, solo quelli veri e di quel periodo, dal 2011 e li ho chiamati 
STORIE VERE DI VITA CONTADINA A SAN TOMMASO BEL PAESINO SULLE COLLINE ROMAGNOLE DI CESENA. 
Così il giovedì di ogni settimana pubblico un racconto sulla mia pagina Facebook (Barzanti Fiorenzo) preceduto da un ”promo” del mercoledì con fotografie (sono un appassionato) delle nostre colline. 
https://www.facebook.com/fiorenzo.barzanti
Ridendo e scherzando sono passati quasi 10 anni ed oggi 2020 i racconti pubblicati sono 453 (circa 10.000 battute ciascuno).
Mi diverto molto e sono spronato a continuare dai miei numerosi lettori. La scintilla di questa avventura scattò nel 2011 da un racconto di vita contadina scritto da un avvocato di Cesena che mi fece arrabbiare. Descriveva il mondo contadino senza conoscerlo e come una cartolina illustrata. Io non rimpiango il passato ma non bisogna mai dimenticare da dove siamo venuti.
Un centinaio di racconti sono stati pubblicati anche da un quotidiano locale

Fiorenzo Barzanti

La pensione – Storia di Gianin e la Dilina

All’inizio degli anni 60 la pensione era un fatto molto importante per gli anziani contadini. Il giorno del mese quando si ritirava alla posta era speciale. Io ero un bambino e lo ricordo così:

Cammina piano piano ed arriva sotto ‘’ e cocal ‘’ (l’albero delle noci). Si siede al solito posto, estrae dal grembiale una busta di carta legata con un elastico. Comincia a contare: 20 carte da 500 lire, 2.000 lire in monete da cento e 7 monete da 50 lire. In tutto fanno 12.350 lire. E’ la pensione della Dilina (Adele). Arriva Gianin ( Giannino) il marito e le dice: ‘’ ci sempra drì a cuntè, sa creidat chi cresa cun la guaza ? ‘’ (sei sempre dietro a ricontare i soldi, cosa credi che aumentino con la rugiada del mattino ?). Era infatti la quarta volta in tre giorni da quando aveva ritirato la pensione che la Dilina ricontava i soldi. Forse aveva paura che glieli avessero rubati ? No, semplicemente provava piacere a ricontarli e sentirli frusciare fra le mani. Dovete sapere che per i contadini i soldi erano importanti ma erano guadagnati sempre a fronte di qualche cosa: la vendita della frutta, la vendita di un galletto al mercato oppure delle uova al ‘’ pularol ‘’ (pollivendolo). Quelli della pensione invece erano considerati una manna piovuta dal cielo perché ricevuti a fronte di niente. Comunque Gianin che aveva fatto lo spiritoso disse alla moglie: ‘’ data che tai sii, counta nenca i mia ‘’ (dato che ci sei conta anche i miei). Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena abitato da famiglie contadine. Gianin e la Dilina erano proprio una bella coppia. 89 lei ben portati, 85 lui portati maluccio. La donna era ingobbita e camminava piegata in avanti con la mano destra perennemente appoggiata su un fianco. Portava i segni di quella che una volta era una ragazza alta e slanciata. Aveva sempre un fazzoletto annodato sotto il mento e sporgente dalla testa come era abitudine per molte donne per ripararsi dal sole. Il viso era vispo e quando ti incontrava doveva guardare in alto per vedere la tua faccia. La testa, intesa come capacità di ragionare c’era tutta. Gianin pur essendo più giovane aveva grossi problemi fisici. Tremolante, camminava a fatica appoggiandosi alla zanetta. Ogni tanto perdeva il filo logico del ragionamento e ripeteva spesso le stesse frasi. Vivevano con il figlio grande e la nuora che si rivolgeva a loro come d’abitudine a quei tempi chiamandoli ‘’ ma ‘ e ‘’ ba ‘’ (mamma e babbo). Già da tempo avevano mollato le redini della famiglia, ciò nonostante il figlio che si chiamava Mario prima di prendere una decisione consultava sempre il genitore perché sapeva di fargli piacere. Per esempio una volta tornò dai campi con due foglie di vite e disse al babbo: ‘’ sa gei vo cui voia e soifan ‘’ (cosa dite voi che sia ora di dare il solfato di rame). Il grande vecchio guardò a lungo le foglie e sentenziò: ancora non si vedono i segni della malattia ma fai bene a darlo perché le mattinate sono molto umide. La famiglia abitava in una casa lontana circa un chilometro dalla strada principale ed i due vecchi non uscivano mai e non si lamentavano. Da due anni la Dilina aveva smesso di andare alla messa e così il prete Don Antonio l’andava a trovare una volta al mese per confessarla e portarle la comunione. Quella volta il prete arrivò e come al solito cominciò a chiacchierare in dialetto con la famiglia davanti ad un bicchier di sangiovese. Si era fatto tardi ed estrasse la comunione da dare alla donna. La vecchietta disse: ‘’ ma non mi sono ancora confessata’’. Al che il prete: ‘’ un gnè bsogn che e paradis a ve sì za guadagnè ‘’ (non c’è bisogno perché il paradiso ve lo siete già guadagnato). Piuttosto, continuò , sarebbe ora che si accostasse ai sacramenti quel comunista di vostro marito. Gianin che sembrava sopito rispose ringalluzzito: ‘’ la religione è l’oppio dei popoli’’ e tutto finì in una gran risata. Era arrivato il grande giorno. Vi ho detto infatti che i due vecchi non uscivano mai di casa tranne una volta al mese quando andavano in città a ritirare la pensione di vecchiaia. La sera prima fecero il bagno nella mastella di legno dentro la stalla. E mentre la Dilina gli strofinava la schiena, gli diceva: dovrai pure imparare da solo a lavarti che se muoio prima io come farai? Gianin rispondeva: non c’è problema, se muori prima tu dopo due giorni arrivo anch’io. Poi la donna piano piano gli fece la barba. Ogni tanto ci scappava qualche taglietto perché il tremore era evidente ed il vecchietto diceva scherzando: ho capito, cerchi di tagliarmi il collo. Poi nella camera da letto la Dilina preparò tutti gli abiti stesi sul baule perché l’indomani bisognava essere ‘’ mudì ‘’ (cambiati cioè vestiti bene). Il letto era molto alto e per stendersi, prima l’uomo si sedeva poi la moglie lo faceva stendere piano paiano. I materassi erano imbottiti con foglie ‘’ ad furmantoun ‘’ ( di granoturco) ed ormai pendevano ed occorreva rifarli. Al mattino presto partirono tutti e quattro con la cavalla. Mario e la moglie davanti nel ‘’ baruzen ‘’ (piccolo biroccio o calesse) e i due vecchi di dietro. Osc-ia, diceva Gianin, mi sembra di essere in una macchina ‘’ ad piaza ‘’ (cioè un taxi) e la Dilina rivolta a Mario: vai piano, non scardassare che ci rompiamo tutte le ossa. Arrivarono a Cesena davanti alla posta centrale. I due scesero e si misero in fila. L’attesa non li annoiava anzi si divertivano perché scambiavano chiacchiere con gli altri. Si conoscevano infatti quasi tutti. Come la volta precedente la Dilina non vide il contadino soprannominato ‘’ Pulenca ‘’ e chiese ai vicini: ‘’ che sipa ancoura e mond? ‘’ (che sia ancora al mondo? Cioè vivo). Gli dissero che ormai non camminava più ed aveva dato la delega al figlio. La domanda non era disinteressata perché si diceva che da giovane fosse stato un suo filarino ma come spesso succede, il destino non è come l’asino che va dove lo guidiamo e non se ne fece niente. Ogni tanto, quando aveva bevuto un bicchier di sangiovese di troppo, la Dilina si confidava con la Suntina e ricordava il primo amore: ‘’ Pulenca l’era grand e l’aveiva do spali com un armeri ‘’ (Pulenca era grande ed aveva due spalle come un armadio) e continuava: ‘’ e po’ am so mesa cun Gianin, a so steda ben e u ma sempra rispitè ‘’ (poi mi sono messa con Gianin, sono stata bene e mi ha sempre rispettata). Gianin e la Dilina non erano nella stessa fila ma in file diverse. Dovete sapere infatti che ognuno aveva un’impiegata della posta preferita ed ogni volta voleva andare da lei. Arrivò il turno della donna. Gli altri in coda si tenevano a distanza perché era abitudine non orecchiare e non guardare i soldi degli altri. L’impiegata si chiamava Maria e le fece una gran festa poi prese il libretto, scrisse l’importo e contò i soldi. Conosceva benissimo l’abitudine di ogni pensionato e quindi le pezzature dei soldi erano quelle desiderate. Poi ricontò per la seconda volta i soldi, li mise in una busta di carta e la diede alla Dilina che prontamente allungò una ‘’ ligheza ‘’ (un grande fazzoletto annodato) con sei uova fresche. Se l’impiegata avesse rifiutato si sarebbe offesa a morte. Era una simpatica usanza. Nell’altra fila anche Gianin era arrivato alla sua impiegata. Per la verità, come diceva agli amici ‘’ e sfugheva l’oc ‘’ (sfogava l’occhio con l’impiegata) infatti era una bella signora mora con gli occhi neri. Quando la Dilina lo rimproverava di fare il pappagallo, per l’esattezza ‘’ na fè e papagal che ci vecc cum e coc ‘’ (non fare il pappagallo cioè il casca morto che sei vecchio come il cuculo) lui rispondeva: ‘’ non sono rimasto mica con lei, non vedi che sono tornato a casa con te ? ‘’. A proposito, come al solito Gianin volle lasciare una mancia di 50 lire e guai se non li avesse presi. Ridendo e scherzando si erano fatti quasi le 11. Arrivò Mario che fece risalire i genitori ed anziché avviarsi verso casa andò verso la Piazza del Popolo dove c’erano le bancarelle. Li fece scendere e la vecchietta comprò un paio di calze nere grosse per lei ed un paio di mutande lunghe per il marito. Poi un paio di ciabatte per la nuora ed un pacchetto di sigarette ‘’ alfa ‘’ per il figlio. Non mancarono alcuni giocattoli per i bambini dei nipoti. Ma attenzione, non con i soldi appena ritirati. Quelli bisognava portarli a casa e contarli e ricontarli per qualche giorno. Poi fecero tappa da ‘’ Primo di limon’’ (negozio che esiste ancora oggi e che aveva un po’ di tutto e si trova nell’angolo fra Piazza del Popolo e Piazza Aguselli). Comprarono ‘’ un pidariol ‘’ ( imbuto). Gianin con il figlio entrò anche nell’osteria ‘’ Michileta’’ per bere un bicchiere di vino. L’oste lo salutò dicendo: ‘’ cum a si svelt Gianin ‘’ ( come siete messo bene Gianin) e lui approffittando del fatto che non c’erano donne fece la classica battuta : ‘’ e problema lè che lò un da piò ment ‘’ ( il problema è che lui non mi da più retta) disse guardandosi nel cavallo dei pantaloni. Durante il viaggio di ritorno Gianin disse: ‘’ ferma la cavala che ha iò da fè un goz d’acqua ‘’ (ferma la cavalla che devo fare un goccio d’acqua cioè la pipì) e la Dilina: ‘’ sta tenti tant pessa in ti calzoun’’ ( stai attento a non farti la pipì nei pantaloni). Arrivarono a casa stanchi morti, nascosero i soldi nella cassetta di latta che stava in fondo al baule sotto le lenzuola ricamate. Poi tutto il pomeriggio lo passarono a riposarsi nel letto. Poi prima di assopirsi Gianin disse: chissà se il prossimo mese potremo andare ancora insieme a prendere la pensione. ‘’ Durma so e sta zet ‘’ (dormi e stai zitto) rispose la più ottimista Dilina. Erano sereni e si erano divertiti un sacco.

Questo racconto è di Fiorenzo Barzanti che ha gentilmente concesso a Theatre of Tarots di pubblicarlo sui propri canali di pubblicazione

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